Un estratto dell’articolo è stato pubblicato per la prima volta sul magazine di Dialoghi D’Impresa. Raccontare un’impresa non è solo un’operazione di amarcord, ma può essere l’occasione per una nuova spinta evolutiva dell’impresa stessa. Perché le imprese, come le persone, hanno bisogno di evolversi. Questo è Dialoghi D’Impresa!
Content is King.
Quello portato dal web2 prima e ora dai primi esercizi di web3 non è stato e non è un semplice cambiamento di patina, ma piuttosto una trasformazione profonda per le aziende. Culturale, prima ancora che manageriale. Repetita iuvant…
Si tratta di concepire le aziende e le marche come entità che, pur continuando ovviamente a vendere i loro prodotti e servizi, devono cominciare a pensare, comunicare e agire sul mercato diversamente da prima.
Jay Baer, uno dei più importanti professionisti di marketing e comunicazione digitale al mondo, le chiama rendite di informazione.
Le marche non distribuiscono più solo prodotti; esse producono, scovano e distribuiscono informazioni. Per questa ragione, le organizzazioni diventano importanti per la società non solo dal punto di vista economico ma anche intellettuale. Il risultato consiste nell’evoluzione della marca: da una realtà che produce cose a un’azienda che produce idee.
Certamente, il contesto è molto cambiato. Parliamo sempre più spesso di CADD, customer attention deficit disorder: una mancanza di focus e attenzione che ci riguarda un po’ tutti, e che in futuro non potrà che peggiorare. In un articolo, tempo fa, ho parlato del passaggio da Gen C(connessa) a Gen D(isconnessa) e di customer disloyalty.
Storie che incantano e content mindfulness 🤯
Se dunque oggi le aziende, sempre più media company, non possono smettere di produrre contenuti, la domanda dal perché si sposta subito verso il come.
Una prima risposta vede il content marketing farsi sempre più narrativo, grazie alla capacità di raccontare storie migliori e più efficaci grazie ad emozioni e passioni condivise con i brand fan. Questa è la strada segnata che porta alla content mindfulness, partendo dai singoli ‘pezzi’ di comunicazione (per esempio, una pubblicità) all’intera visione narrativa aziendale.
A proposito di advertising narrativo, uno studio durato due anni svolto da Keith Quesenberry e Michael Coolsen della Shippensburg University ha analizzato più di 100 pubblicità proiettate durante il Super Bowl, dimostrando scientificamente come gli spot capaci di narrare una storia efficace facendo leva sugli schemi narrativi più diffusi siano poi diventati maggiormente popolari e apprezzati dal pubblico. Budweiser è risultata essere la marca capace di utilizzare al meglio le tecniche narrative. Nello specifico, le pubblicità di maggiore impatto sarebbero quelle caratterizzate da plot drammatici e capaci di creare forti connessioni emozionali, in linea con lo stile di alcuni grandi autori come William Shakespeare.
Chi pensa che oggi sia tutta una questione di sesso, humor o animaletti, verrà dunque contraddetto: l’anima di un commercial di successo è l’abilità di veicolare o meno una storia rilevante.
In che modo il gruppo di ricerca della Shippensburg University ha inteso il significato di “storia efficace”? È stata valutata la capacità degli spot capaci di raccontare una narrazione completa e consistente utilizzando la Piramide di Freytag, un modello classico che definisce l’architettura di un’opera drammatica in funzione di una serie di specifici atti.
A integrazione della Piramide di Freytag, secondo la Teoria del Pallone le storie più emozionanti sono quelle la cui struttura narrativa è capace di alzare e abbassare in modo intermittente le fortune dell’eroe, influendo sulle emozioni dell’audience di riferimento.
Insomma: le storie funzionano molto bene anche quando sono applicate ai contenuti, e permettono alle aziende di differenziarsi. L’esperto di comunicazione Harrison Monarth ha elevato lo storytelling a leva organizzativa strategica:
Lo storytelling può sembrare qualcosa di old-fashioned, e questo è esattamente il motivo che lo rende così efficace. La vita scorre all’interno delle narrazioni che facciamo e ci raccontiamo. Una storia può arrivare dove per le analisi quantitative è vietato l’accesso: i nostri cuori. I numeri possono persuadere le persone, ma non ispirarle ad agire; per fare ciò, è necessario avvolgere la visione all’interno di una storia che sappia stimolare l’immaginazione e muovere il cuore.
Storytelling strategico: facile a dirsi, molto meno a farsi
La buona notizia è che come Leader, Manager e Professionisti aziendali, non è necessario per forza essere tutti nello stesso punto di partenza.
Il buon storytelling è un percorso continuo, non una meta.
Il Content Maturity Model proposto alcuni anni fa dal Content Marketing Institute è uno strumento utile a individuare il posizionamento delle aziende relativamente alla maturità di approccio al marketing dei contenuti: lo stadio “Storyteller” è tipico di quelle realtà che riescono a integrare il contenuto prodotto e condiviso all’interno della più ricca e complessa narrazione di marca.
Disegnare la content narrative: da dove iniziare, per arrivare dove?
Joe Pulizzi, fondatore del Content Marketing Institute e autore di diversi bestseller su comunicazione e contenuti, ha individuato alcune variabili operative che dobbiamo valutare per progettare la content narrative di marca. ⛳️
1 | Se l’azienda o il brand hanno una storia, il primo passo è analizzare le comunicazioni prodotte e diffuse nel tempo, comprendendo le caratteristiche peculiari e gli elementi differenzianti. |
2 | I contenuti realizzati hanno il compito di riflettere i valori simbolici profondi del brand e le stesse comunicazioni diventano (almeno parzialmente) indicative per comprendere i tratti identitari di marca più sedimentati. Saranno principalmente questi a rendere unica e indimenticabile la storia. |
3 | Da una prospettiva più quantitativa, è importante misurare il successo sul pubblico di tali comunicazioni e dei contenuti aziendali prodotti negli anni, per capire subito quali sono i più e meno amati. |
4 | Possono esistere anche opportunità o minacce non necessariamente legate al business organizzativo o al settore, ma comunque rilevanti per una corretta progettazione. |
5 | Inoltre, è necessario tenere sempre in mente il ruolo fondamentale di giornalisti, content creator media, cercando di comprendere come gli stessi hanno parlato del brand e in quale universo semantico lo stesso è stato posizionato. |
6 | Le nuove tecnologie e piattaforme social hanno abilitato anche le persone in modo diretto: occorre allora comprendere cosa dicono gli individui dell’azienda quando parlano tra loro o in contesti conversazionali più o meno informali (per esempio social network o forum). |
7 | Non solo: migliorate la vostra sensibilità anche rispetto agli argomenti, le tematiche e le informazioni non necessariamente collegate al brand ma di cui fan e clienti amano parlare abitualmente. |
8 | Occorre anche cercare di comprendere subito in che modo essi ricercano sui motori di ricerca il nome aziendale, dei prodotti di marca e lo specifico settore. |
9 | Ci sono infine particolari problematiche che riguardano il servizio di assistenza, o la funzionalità / qualità dei prodotti in vendita? Nel caso, una valutazione (il più possibile) oggettiva servirà a prevenire errori che potrebbero dare poi vita a gravi crisi di immagine e reputazione. |
Mappare correttamente queste variabili è un punto di partenza ottimo per iniziare a disegnare una content narrative declinata con precisione sul profilo, le aspettative e i comportamenti abituali dei pubblici. Per arrivare dove?
Difficile saperlo in anticipo, ma un recente articolo dal blog di Starbucks viene in aiuto per comprendere cosa significa oggi fare brand community intorno alle storie di marca. Da sempre, Starbucks è indicata come the third place: il terzo luogo in cui stare e in qualche modo vivere, dopo la casa e l’ufficio. Nell’immaginario comune soprattutto alle culture anglosassoni, lo Starbucks store è il posto dove sentire un grande senso di appartenenza e connessioni con altre persone.
Per fare evolvere ulteriormente il proprio posizionamento di lovemark, la strategia di brand engagement aziendale punta oggi forte sul web3, e in particolare sugli NFT (non-fungible token). Si tratta di smart contract scritti su una blockchain che permetteranno di aprire nuovi sentieri del brand storytelling, dando accesso a esperienze esclusive e uniche. Un nuovo luogo appunto, capace di integrarsi con l’ecosistema di Starbucks esistente e dare ulteriore spinta propulsiva in termini di community building, storytelling e customer engagement.
Insomma: siamo nel mondo dell’abbondanza narrativa, in cui non mancano né le storie, né gli strumenti per raccoglierle e trasformarle in potenti contenuti aziendali.
Ora tocca a voi, o meglio a noi.