Alla fine, mi sono deciso: condivido alcuni pensieri che volevo fare da tempo sulle possibilità e sulle sfide legate alla relazione tra content creator e brand. Parto da un evento abbastanza insignificante, un corso che ho seguito dove il docente ha coinvolto un testimone aziendale. Un ‘imprenditore’ di una ‘startup innovativa’ (in Italia ho imparato ad andare molto piano con entrambi i termini, e anche questa volta ho l’impressione di non essermi sbagliato) dedicata a progetti di comunicazione con i content creator. Dopo avere passato i miei primi minuti di spaesamento – il tema del pomeriggio sarebbe dovuto essere tutt’altro – ho deciso di dare fiducia e ascoltare per qualche minuto questo giovane ‘imprenditore’. Passato il suo speech, mi è rimasta una grande question in testa: ma quindi?
A cosa serve un content creator?
Dopo la prima domanda legata al fatto di non riuscire a dare una spiegazione valida al mio investimento di 1.5 ore di attenzione spese ad ascoltare l”imprenditore’, ho cercato di razionalizzare e ne è sorta subito una seconda, che in qualche modo la sviluppa: ma quindi… a cosa serve un content creator?
Sono giunto a queste conclusioni. I content creator servono a…
- … parlare con un essere umano: comunque, anche se ancora tanti si scandalizzano a leggere dei 10, 20, 30, 40, 50.000 Euro pagati da un’azienda per coinvolgere un content creator, dalla prospettiva del Manager che libera il budget si tratta di una cifra irrisoria. L’avrebbe comunque speso in media su Facebook, Instagram o Google, con l’aggravante di pagare una macchina (il cui funzionamento è per lui / lei non ancora del tutto chiaro, e sempre meno lo sarà). Meglio, molto meglio darli a una persona in carne e ossa, a cui chiedere i risultati a fine campagna. Insomma, torna la dinamica psicologica per cui ci fidiamo più di una persona che di un robot. E non mi dire che esistono computer-generated influencer come @lilmiquela o @noonoouri: ti assicuro che anche in quel caso, la fattura arriva da umano, a umano. 🤖🙈
- … agilizzare le decisioni: un conto è dire di cavalcare i trend, un altro è farlo davvero. Tra la decisione iniziale e il risultato finale si aggiunge infatti una fila di catene, policy, organigrammi da rispettare, divieti del legal e/o dell’IT, etc. … che rallentano e non poco la dinamica. Meglio allora chiedere a qualcun altro di farlo per noi. A un content creator, per esempio.
- … esternalizzare alcuni ‘pezzi’ di marketing: da sempre, in azienda c’è una decisione binaria da prendere su molti punti. Farli in casa (make), o acquistarle dal mercato (buy)? Affidarsi ai content creator spesso solleva da diverse attività che altrimenti si sarebbero dovute fare internamente. Pensa solo alla fatica di fare crescere il profilo aziendale organicamente, piuttosto che fare gioco di sponda con i profili di qualcun altro che genera ormai quasi automaticamente effetti virali, empatia e follower.
Da Manager, a Coordinatore
I tre punti che ho elencato rivoluzioneranno il ruolo del Digital Marketing Manager, sempre più Coordinatore e sempre meno Maker e artefice diretto degli artefatti e delle azioni di marketing digitale. Nella mia prospettiva e dai miei studi, questo ruolo a tendere diventerà sempre più:
un coordinatore di risorse e competenze prese dal mercato, invece che fatte crescere e sviluppate internamente.
Il che non è un danno: cambierà la job description delle figure aziendali dedicate al digital marketing, con un maggior focus sulle soft skill rispetto alle hard skill.
I content creator sono pericolosi?
A guardarli, quasi mai i content creator fanno timore. Sono carini, hanno i tatuaggi, dicono concetti semplici e molto lineari, sorridono. Ma alla lunga possono fare molto male ai brand, per almeno tre motivi.
- La brand equity rischia grosso. Per decenni la pubblicità e le altre iniziative di brand building hanno generato marche iconiche, con un proprio linguaggio unico e una loro iconicità che non potevano essere scalfiti. Qualche mese fa, parlavo con il Direttore Editoriale di un brand globale di abbigliamento sportivo che mi raccontava del recente ingaggio di un importante content creator. Nella sua visione sarebbe stato sbagliato condividere con esso le linee guida del linguaggio della marca e portarlo così verso il mondo del brand; occorreva fare l’esatto opposto, permettergli di usare il proprio linguaggio in modo che la marca fosse accostata e assorbisse il più possibile. Un discorso a prima vista più che giusto (altrimenti, probabilmente non ne avrebbero avuto nemmeno bisogno), ma che a lungo andare mette a rischio letale la brand equity offuscandone le associazioni caratteristiche e i caratteri di unicità a favore di quella del content creator. Che, ricordo sempre, è a sua volta una marca.
- I discorsi della marca e sulla marca si abbassano. Per il motivo che ho appena citato, il creator quasi mai è interessato al brand con cui collabora, quasi sempre è ben più interessato a prosperare. Inoltre, per definizione necessita di raggiungere centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone. E se qualcosa o qualcuno diventa popolare, lo fa anche a discapito della complessità del contenuto, il quale deve diventare il più possibile comprensibile a chiunque. Ma se il content creator agisce come ‘pezzo’ di brand voice, ti lascio chiudere il cerchio del pensiero. 👽
- La funzione del Marketing diventa un contenitore senza contenuto. Se il Digital Marketing Manager diventa un orchestratore di risorse dal mercato, questo terzo rischio è palese. Lo stesso digital marketing diventa micro-marketing – effimero e di breve termine. Ma allora, riprendendo il nome di un’agenzia che adoro, chi costruirà le grandi marche del ventunesimo secolo?
Attento, dunque: considera i content creator come leve efficaci da attivare nel più ampio digital marketing mix, senza posizionare mai l’influencer marketing come pieno sostituto o evoluzione del marketing digitale.